Nella teoria dei cicli lunghi, elaborata da Kondratiev negli anni ’20 in Unione Sovietica, l’innovazione tecnologica è uno dei fattori che porta alla risoluzione della crisi. Joseph Schumpeter, economista austriaco degli anni 30, considerava l’innovazione tecnologica come il fattore determinante nella risoluzione della crisi e nell’avvio di un nuovo ciclo lungo. Nella teoria originale però Kondratiev prendeva in considerazione altri fattori quali: l’affermazione di nuovi modelli di impresa, l’ingresso di nuovi paesi nel mercato globale, l’aumento della quantità e disponibilità di moneta.
In base a questa teoria si possono individuare quattro cicli lunghi, ognuno caratterizzato dalla diffusione di importanti nuove tecnologie:
1790-1848: il sistema delle fabbriche, le macchine a vapore, i canali;
1848-1895 circa: le ferrovie, il telegrafo, i grandi piroscafi transatlantici, la produzione automatizzata di macchinari;
1895 circa-1945: l’industria pesante, l’energia elettrica, il telefono, l’organizzazione scientifica del lavoro e la produzione in serie;
1945-2008: transistor, materiali sintetici, beni di consumo di massa, automazione delle fabbriche, energia nucleare e calcolo automatico.
Alla fine degli anni novanta, sovrapponendosi alla fine dell’onda precedente, compaiono gli elementi di fondo di un quinto ciclo lungo, trainato da tecnologie di rete, comunicazioni mobili, un mercato realmente globale e beni d’informazione. Ma l’espansione si è bloccata e il nuovo ciclo non è ripartito. Ora quali possono essere le cause di questo blocco?
Si potrebbe fare ricorso all’aumento esponenziale del capitale speculativo finanziario a spese di quello produttivo, o al consumo improduttivo di capitale legato alla crescita del lavoro improduttivo di plusvalore. Ma torniamo alla questione dell’innovazione tecnologica. L. Reynolds e B. Szerszynski: nell’articolo “Neoliberismo e tecnologia: innovazione permanente o crisi permanente?” in Countdown 2 affermano che container, motori diesel e turbine a gas vengono considerati “i principali promotori della globalizzazione. Queste tecnologie permettono una nuova diffusione generalizzata, a livello globale, delle forze produttive esistenti associate all’epoca fordista, favorendo così il riposizionamento di un nuovo fordismo. Per cui, invece della visione, tipica degli anni ’70, di un “mondo di domani”, caratterizzato da una produzione completamente automatizzata e dalle bio-industrie, la realtà più prosaica è stata quella delle basse retribuzioni dei lavoratori in Cina e in altre parti del Sud-Est asiatico, che lavorano utilizzando mezzi di produzione e processi lavorativi piuttosto vecchi, risalenti alla seconda rivoluzione industriale, resi più produttivi attraverso una ricollocazione globale. Questa mossa, come parte di un nuovo “fix spazio-temporale”…ha alterato la composizione organica del capitale, ha ridotto in maniera considerevole il costo del lavoro ed ha favorito l’espansione dell’economia mondiale dagli anni ’90 in poi.”
Paolo Giussani, d’altra parte, in una conferenza tenuta a Milano nel Novembre 2010 sosteneva:
“Altrettanto nuova nella storia del capitalismo moderno è la tendenza, introdotta dagli anni 80 e da allora praticamente ininterrotta, al peggioramento nella distribuzione del reddito e nelle condizioni di vita e lavoro. La contrazione dell’accumulazione prima e l’outsourcing e il trasferimento all’estero di grossi segmenti produttivi poi, attraverso l’aumento dell’esercito di riserva, tendono a distruggere il potere contrattuale dei lavoratori salariati e mettono in moto un movimento di deintegrazione, diametralmente opposto a quello dominante dalla seconda metà del secolo XIX in poi. Quello che fu il cosiddetto movimento operaio sparisce dalla scena della storia mentre l’intensità della lotta concorrenziale di tutti contro tutti raggiunge livelli mai visti.”
Per Giussani l’impossibilità della difesa dei salari da parte della classe operaia è uno dei fattori del calo degli investimenti produttivi, dell’accumulazione e del relativo sviluppo tecnologico. Tutto ciò può essere in accordo con le tesi operaiste che portano a concludere che lo sviluppo antagonistico dell’ “operaio sociale” è stato impedito dal mancato rivoluzionamento dell’organizzazione produttiva da parte capitalistica. E in accordo anche con il mancato decollo, finora, del quinto ciclo lungo di Kondratiev, come sostenuto da Paul Mason nel suo testo “Postcapitalismo”.(1)
Il limite capitalistico all’introduzione di nuove tecnologie nel sistema produttivo era già chiaro a Benjamin Coriat che in “ Science, technique et capital ”, Editions du Seuil, 1976 sostiene che “ tutte le volte che una macchina permette di economizzare lavoro vivo – ed è, questa, la condizione per la sua incorporazione – nello stesso movimento essa riduce la base del lavoro vivo sulla quale prelevare il plusvalore. A causa di questa contraddizione tutto accade come se la “spinta a innovare”, per ciò che riguarda la trasformazione del processo di produzione, diminuisse e tendesse ad annullarsi mano a mano che si giunge ad un certo livello di sviluppo della forza produttiva della macchina. A questo livello, i guadagni sperati di produttività si realizzano ad un tal costo che non giustificano più il sovrappiù di investimenti “.
POSTCAPITALISMO
Su un altro versante troviamo i fautori del postcapitalismo i quali sostengono che le nuove tecnologie informatiche sono in contraddizione con il modo di produzione capitalistico, mettendone in discussione alcuni principi fondamentali, quali:
1) il valore delle attività immateriali non è calcolabile, l’abbondanza di informazione rende irrilevante il gioco domanda offerta, la concorrenza perfetta spinge i prezzi al ribasso verso lo zero erodendo così i profitti;
2) un’economia non di mercato: open source, software libero e collaborativo mina la proprietà privata capitalistica e apre a nuove forme di proprietà e gestione e alla libera informazione;
3) wikipedia è un esempio di produzione orizzontale basata sui beni comuni; la tecnologia a basso costo e le forme di produzione modulari ci spingono verso un lavoro collaborativo, non di mercato.
In questo caso ci troveremmo di fronte a un interessante sviluppo della marxiana contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione o alla teoria del general intellect, secondo cui la forza trainante della produzione è il sapere e il sapere racchiuso nelle macchine è sociale.
Va detto però che l’introduzione della microelettronica e dell’informatica nel processo produttivo non ha per niente ridotto il prezzo del capitale fisso, anzi molte rilevazioni statistiche tendono invece a provare che l’introduzione della microelettronica nel processo produttivo, dopo il primo e fugace entusiasmo, è stata molto meno massiccia di quanto ci si poteva aspettare e segna comunque il passo. Ci troviamo quindi di fronte a un forte rallentamento della crescita della produttività, dovuto alle evidenti difficoltà in cui si dibatte l’accumulazione. La microelettronica ha avuto la più grande diffusione nel campo della comunicazione, dell’informazione, della raccolta e trasmissione dati, nel campo amministrativo, finanziario e del controllo sociale, nei servizi alle imprese e alla pubblica amministrazione, tutti campi in cui si sono riversati i “lavoratori autonomi di seconda generazione” la cui “sussunzione”, detta in termini marxiani, è stata solo “formale”, cioè limitata all’acquisto di prodotti del “lavoro immateriale”. D’altra parte però il lavoro mentale ha subito, in larga parte, lo stesso processo già toccato al lavoro manuale, vale a dire l’incorporamento del lavoro vivo nel lavoro morto, cioè nel macchinario, impersonificato in questo caso dal microprocessore. Tuttavia, pur nell’aumento relativo del lavoro immateriale, la divisione fra lavoro manuale e intellettuale rimane comunque fondante del modo di produzione capitalistico, anche se andrebbe ovviamente attualizzata.
RIFIUTO DEL LAVORO
Da un punto di vista strettamente operaio (o operaista) l’innovazione tecnologica è utile ai fini dell’accelerazione della tendenza alla riduzione al minimo del lavoro necessario alla riproduzione sociale, in altri termini ai fini della liberazione dal lavoro. Non c’è dubbio sul fatto che la lotta operaia sia stata, nell’occidente capitalistico, uno stimolo forte all’introduzione di nuove tecnologie. Chi non ricorda il caso dei nuovi assunti alla Fiat nel 78-79 e l’introduzione dei robot nella produzione alla Fiat nei primi anni 80, e si disse allora, secondo lo schema operaista, che erano stati introdotti per spezzare la rigidità operaia sulla catena di montaggio o per ridurre la nocività in alcuni reparti come la verniciatura. Probabilmente non erano i primi robot introdotti a livello mondiale e la Fiat doveva anche tener testa all’aumento della produttività nel settore auto. Questo tipo di movimento non esiste più nell’occidente capitalistico, mentre probabilmente si riproduce oggi in Cina, dove le lotte operaie e i conseguenti aumenti salariali rendono conveniente per i capitalisti l’introduzione dei robot, aggiungendo al plusvalore assoluto, estratto attraverso lo sfruttamento intensivo della forza lavoro, il plusvalore relativo dovuto all’aumento della produttività del lavoro.
Ma quali sono i motivi della fine della lotta operaia in occidente su questo particolare aspetto dell’organizzazione del lavoro in fabbrica? Dopo gli anni 70 il rifiuto del lavoro diviene inevitabilmente rifiuto del lavoro operaio e, come tale, corre parallelo ai processi di deindustrializzazione, di decentramento produttivo, di “terziarizzazione” della società, ne diviene prodotto e allo stesso tempo acceleratore. Nello stesso tempo la “sussunzione” capitalistica di quasi tutte le attività di riproduzione sociale, dalla salute al tempo libero, dall’alimentazione all’istruzione, dalla ristorazione al lavoro di cura ecc. crea nuovi campi di “lavoro non operaio”, anche se comunque si tratta di lavoro salariato.
Il lavoro necessario, comunque in diminuzione, lungi dall’essere ripartito in maniera egualitaria, viene distribuito in maniera del tutto irrazionale : decentramento produttivo in paesi “in via di sviluppo”, sacche sempre più consistenti di esclusione dai rapporti di produzione e sociali, precarizzazione e sottoutilizzazione di fasce di forza lavoro soprattutto giovanile, al contrario aumento dell’intensità del lavoro e delle ore lavorate per i lavoratori già impiegati. Aumenta invece a dismisura il lavoro superfluo, vale a dire il lavoro non produttivo divenuto indispensabile per il mantenimento della produzione e del consumo capitalistico : lavoro nell’ambito della finanza, delle banche, nel settore legale, dell’informazione, della pubblicità, dello spettacolo e chi più ne ha più ne metta. Ricompaiono e si generalizzano vecchie forme di lavoro, quasi precapitalistiche, come quelle dei servizi alla persona, badanti e affini, accanto ad un continuo aumento del lavoro volontario. Negli anni 90 l’afflusso sul mercato di crescenti quote di forza lavoro extracomunitaria e, successivamente, l’introduzione dell’euro portano ad una drastica riduzione dei salari dei lavoratori occupati e, di conseguenza ad una radicale accentuazione dei fenomeni sopra descritti. Il quadro di disgregazione sociale che ne consegue è impressionante.
INDUSTRIA 4.0?
Tempo fa mi era capitato di leggere sul Corriere della Sera un articolo dal titolo alquanto sibillino :”Industria 4.0 :così l’Europa investirà 1.300 miliardi per riprendersi la manifattura”.(2) Nell’articolo si afferma che “non sarà molto importante possedere l’intero ciclo produttivo ma individuare l’anello di quel ciclo in cui si concentra il valore”. Nella sostanza si tratta, per i paesi capitalistici tradizionalmente sviluppati, di recuperare in parte il peso dell’industria nella creazione del valore che dal 1991 ad oggi si è ridotto dall’80% al 60% a favore dei “paesi emergenti”. Tale recupero potrà avvenire utilizzando la digitalizzazione dei sistemi produttivi per dare risposte più rapide alle richieste del mercato. Si dice che “è decisivo per un imprenditore individuare l’anello strategico della catena. Quello che dà più valore aggiunto perché è in grado di modificarsi più in fretta al mutare delle richieste degli altri attori della filiera produttiva”. Si portano come esempio le stampanti 3D dove il flusso produttivo a un certo punto sparisce, diventa immateriale, software, tornando a diventare oggetto a migliaia di chilometri di distanza, nel laboratorio dell’anello produttivo a valle.
Sembra quindi che siamo destinati ad assistere, dopo la rivoluzione delle macchine a vapore del 700, dopo quella del fordismo all’inizio del 900 e quella dei robot, a metà del secolo scorso, alla nuova rivoluzione digitale, con un aumento degli addetti all’industria dai 25 milioni del 2011 ai 31 milioni del 2030. Quanto detto nell’articolo non dirada la nebbia fitta che avvolgeva la dichiarazione contenuta nel titolo, al limite ci fa capire che anche i capitalisti (o imprenditori) vivono in un loro particolare mondo dei sogni. Tutt’al più ci fa tornare in mente un qualcosa che in altri tempi veniva definita “divisione internazionale del lavoro”.
I grandi cambiamenti ipotizzati sono sostanzialmente quattro : 1) ripensare il modo in cui gli oggetti vengono progettati (su un computer, ovviamente), i primi prototipi realizzati con una stampante 3D per esempio ; 2) la catena di montaggio monitorata in tempo reale per prevenire guasti tecnici (con dei sensori, molto spesso) ; 3) i prodotti distribuiti e seguiti nel loro viaggio fino al punto vendita (con dei semplici bollini a radio frequenza, per intenderci) 4) e i comportamenti dei consumatori analizzati in tempo reale (attraverso quello che dicono sui social network, di solito : una messe di dati che servono a capire il gradimento effettivo, eventuali criticità e quindi ricominciare il giro, progettando nuovi prodotti).
Al termine della lettura non possiamo non provare un senso di profonda delusione. Gli ultimi due punti non interessano la produzione, ma riguardano piuttosto la circolazione delle merci e non mi sembrano, in prima approssimazione, cose nuovissime. Gli analisti di marketing lo fanno già da tempo. Il monitoraggio della catena di montaggio con dei sensori, per prevenire i guasti, consente certamente una maggiore capacità di utilizzo e saturazione degli impianti e quindi un risparmio, anche notevole, sui costi di produzione, ma è comunque marginale rispetto al funzionamento della catena di montaggio stessa, che infatti, nell’ipotesi prima descritta viene data come già esistente. Niente di paragonabile dunque alle rivoluzioni tecnologiche del passato, per intenderci, all’introduzione della macchina a vapore, alla catena di montaggio fordista o alla sostituzione di lavoro vivo con i robot.
Per concludere mi sembra che la tanto sbandierata “quarta rivoluzione industriale” interessi settori piuttosto marginali della catena produttiva e della circolazione delle merci e che la auspicata “rivoluzione digitale” (altrimenti denominata “fabbrica intelligente”), dopo aver già prodotto profondi sconvolgimenti nella divisione internazionale del lavoro come già detto, non sia in grado di indurre quello straordinario incremento della produttività del lavoro e quindi del plusvalore relativo necessario per una generale crescita del sistema economico. E neanche di stimolare la nascita di nuovi settori produttivi capaci di creare nuovi posti di lavoro, nuovi profili lavorativi e nuove professioni.
Visconte Grisi
N O T E
(1) Paul Mason – Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro – Ed. Il Saggiatore.
(2) Paolo Griseri : Industria 4.0 : così l’ Europa investirà 1.300 miliardi per riprendersi la manifattura in Corriere della Sera del 13 Aprile 2015